PADRI
CHE COSA VUOL DIRE CONVERTIRSI SECONDO SAN BERNARDO? La conversione è necessaria se si vuole imboccare e vivere la via dell’amore e significa abbandonare la volontà propria attraverso l’umiltà. San Bernardo lo fonda sul Vangelo, là dove Gesù esorta i discepoli: “In verità vi dico: Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli” ( cfr. Mt 18,3). “E che altro significa divenire bambini –si chiede il santo Dottore– se non divenire umili”? (Sulla Quaresima II, 1). Convertirsi in ultima analisi significa apprendere la difficile arte dell’umiltà. E questa consiste nel formarsi una valutazione esatta di se stessi: “L’umiltà è la virtù per cui l’uomo si crede spregevole a motivo di una esattissima conoscenza di se stesso” (Sull’umiltà, 2). L’uomo è grande, perché “nessuna creatura è più vicina a Dio di quella fatta ad immagine di Dio” (De Diversis IX,2), ma anche piccolo per la presenza del peccato personale, alla radice del quale è la superbia, “il desiderio della propria preminenza [Superbia est appetitus propriae excellentiae]” (Ep 42). La conversione perciò, significa riconquistare con fatica ciò che è nativo nella natura umana, l’umiltà, perché l’uomo è umile per natura. La superbia invece, è un prodotto che il diavolo ha inventato ed esportato nell’uomo. In altre parole, occorre scandagliare le profondità del proprio cuore e ottenere una valutazione esatta di se stessi, poiché l’orgoglio e la superbia, i grandi nemici dell’esistenza cristiana, nascono dall’ignoranza di se stessi. Più ci si ignora, più si corre il pericolo di cadere nella superbia. Dall’umiltà poi, nasce la carità verso gli altri. La nostra miseria davanti a Dio ci fa prendere il nostro giusto posto anche davanti agli altri. Proprio attraverso l’esatta conoscenza di noi stessi arriviamo alla conoscenza della debolezza altrui. Noi, dice san Bernardo, attraverso la nostra personale debolezza e fragilità, riflettiamo quasi in uno specchio, quella del prossimo: il cristiano, “partendo dalla propria miseria mediterà su quella di tutti gli altri” (Sui gradi dell’umiltà e della superbia, 16). Dio ci lascia nei nostri difetti, perché comprendiamo quelli degli altri. Tutti siamo fatti della stessa pasta! E allora, come io ho compassione delle mie miserie personali e non mi condanno, così non potrò assumere atteggiamenti severi nei confronti del fratello che pecca, ma dovrò essere sempre aperto al perdono. Tu sei un malato grave- ricorda il santo Dottore- e non potrai non aver compassione del fratello che è malato come te, infatti “ solo un malato può comprendere e aver compassione di un altro malato “ (Sull’umiltà, VI). E’ partendo dalle proprie sofferenze che si impara a compatire quelle altrui (Sui gradi dell’umiltà , cfr. 18). In questo contesto si comprende la necessità della preghiera, come espressione di amore. La preghiera, incontro con Dio mentre si è tanto piccoli (SCt 54,10: “e sei stato privato della grazia, stai pur certo che il motivo ne è stato la tua superbia, anche se non lo si vede, anche se tu non te ne rendi conto”), dev’essere pura, cioè una ricerca di Dio, di Cristo per se stesso (cfr. SCt 40, 3 e 86, 3: “Tu non preghi in maniera conveniente se nella stessa preghiera tu cerchi qualcos’altro all’infuori del Cristo, o se nella preghiera tu cerchi, sì, il Cristo, ma non lo cerchi per se stesso”).
 


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